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Il futuro del Regno Unito e dei Tories dopo le dimissioni di Boris Johnson

La resa di Boris Johnson davanti ai ripetuti infortuni e alle conseguenti pressioni interne al suo partito è stata salutata con entusiasmo smodato dalla sinistra italiana. Il segretario Pd Enrico Letta per salutare l’evento ha utilizzato addirittura la copertina del Times che ritraeva il primo ministro nelle vesti di un clown.

È abbastanza singolare che la stessa sinistra che taccia di irresponsabilità chiunque si azzardi a chiedere di mandare a casa il governo Draghi usando come giustificazioni pandemia, Ucraina e inflazione, non applichi poi lo stesso metro di giudizio nei confronti del governo di una Nazione così importante nello scacchiere globale. Evidentemente il Regno Unito può permettersi una lunga crisi politica (e financo le elezioni richieste a gran voce dal leader laburista Starmer) pur di mandare a casa l’orrendo mostro di destra Johnson, mentre guai a chi tocca SuperMario e soprattutto le sacre poltrone del Pd che, c’è da scommetterci, faranno di tutto per mantenere anche dopo le prossime elezioni.

Il doppiopesismo della sinistra nostrana non sorprende, come del resto non sorprende il filtro ideologico con il quale la stampa mainstream legge le vicende politiche, comprese le ultime del Regno Unito.

È sufficiente trascorrere qualche ora lassù e parlare con qualche britannico in carne ed ossa, come è capitato a me proprio nelle ore delle dimissioni di BoJo, per avere la conferma che il mondo non è quasi mai come lo dipingono Repubblica e compagni.

Bastava sfogliare il Daily Mail, il principale tabloid di orientamento conservatore, per imbattersi in quel titolo a tutta pagina: “Cosa diavolo avete fatto?”.

Un atto d’accusa impietoso verso i maggiorenti del partito Conservatore che, precipitati in una spirale da cupio dissolvi, hanno via via indebolito Johnson fino a pugnalarlo alle spalle e costringerlo al doloroso passo indietro.

Un atto consumato, c’è da dirlo, con grande dignità, in un discorso di pochi minuti davanti al portone del N. 10 di Downing Street, di fronte alla moglie Carrie, ai figli e a un paio di dozzine di fedelissimi. Parole di amore per il suo popolo, da parte di un personaggio istrionico e controverso, che certamente ha commesso errori ma il cui passo indietro apre a molti interrogativi sul futuro del Regno Unito.

BoJo ha saputo portare i Conservatori alla più grande maggioranza parlamentare dai tempi di Margaret Thatcher, sfondando nel “red wall delle grandi città industriali del nord tradizionale feudo della sinistra. Ha promesso di portare a compimento la Brexit (“Get Brexit done”) e lo ha fatto negoziando duro con Bruxelles. Non a caso gli eurocrati che hanno per anni insultato gli inglesi per aver voluto “liberarsi dal giogo” sono stati tra i primi a felicitarsi della sua dipartita politica. Ha ingaggiato la dura lotta al Covid spingendo per primo e più di tutti sulla vaccinazione di massa e riaprendo prima e più di tutti le attività commerciali per non distruggere l’economia, come è invece accaduto nell’Italia giallorossa e draghiana. Si è schierato con forza al fianco dell’Ucraina e anche qui, non a caso, le parole con cui i vertici di Mosca hanno commentato le sue dimissioni sono state al vetriolo. Nel frattempo, ha cercato di rivedere unilateralmente l’accordo di recesso dall’Ue ripristinando le dogane con l’Irlanda del Nord e ha tentato di bloccare i barconi di clandestini sulla Manica utilizzando la Royal Navy (la Marina di Sua Maestà) incorrendo nell’indignazione della sinistra immigrazionista (vi ricorda qualcosa?).

Di recente, dopo i dati economici positivi dei primi anni post-Brexit, a causa della guerra si è trovato anch’egli a fronteggiare l’esplosione dell’inflazione e la crisi del potere d’acquisto dei cittadini. Stava per varare misure anti-crisi, addirittura – udite, udite! – un vigoroso taglio delle tasse, quando gli scandali lo hanno travolto portandolo alle dimissioni.

E ora? I Conservatori mantengono quell’ampia maggioranza che proprio l’ex sindaco di Londra aveva loro garantito nel 2019, ma la corsa alla successione (che dovrebbe concludersi ai primi di settembre dopo un ballottaggio che vedrà esprimersi i più di 100mila iscritti al partito) dovrà veder emergere una figura di spicco, capace non solo di guidare il Governo e la Nazione fuori da un periodo critico per tutti ma anche di condurre i Tories alla rimonta elettorale nel 2023. Nonostante le difficoltà in cui è incappato Johnson, è difficile immaginare che a succedergli possa essere un “remainer” (cioè uno di quegli esponenti conservatori che non hanno sostenuto la Brexit), oppure un profilo più gradito all’establishment ma incapace di sfondare nelle regioni rosse. Perché vincere una primaria interna può essere sinonimo di radicamento nel partito ma non necessariamente di consenso reale presso gli elettori. Per questo, nel caso in cui la selezione interna non dovesse dare adeguate garanzie sul piano elettorale, c’è chi a mezza bocca non esclude persino il clamoroso ritorno del leone ferito: e se, dopo Johnson, il prossimo candidato premier fosse ancora Johnson? In fondo, quello che sta accadendo negli Usa con Donald Trump potrebbe diventare qualcosa di più di una suggestione. #staytuned.

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